Cinquantacinque giorni di consultazioni romane: occhio alle “tecnostrutture”?

Lunedì, 30 aprile 2018, il Corriere della Sera è uscito puntuale come sempre con un interessante editoriale firmato da Angelo Panebianco intitolato, “Stereotipi (e bugie) sull’Italia” (I veri poteri forti).

L’articolo fa una disamina – in parte condivisibile – della situazione politica italiana e delle consultazioni fiume e tutt’oggi incapaci di tirar fuori dal cilindro del mostruoso big-bang elettorale del 4 marzo scorso, un governo.

Il rosatellum bis con il suo cocktail di circoscrizioni proporzionali frammiste a circoscrizioni maggioritarie e soglie basse per entrare in parlamento è finito – guarda caso – per gambizzare l’unico partito sopravvissuto al repulisti di “Mani Pulite” di venticinque anni or sono, il PD, benchmark” dei lib-lab italiani, erede del defunto PCI.

Angelo Panebianco fa finta di stracciarsi le vesti per via delle consultazioni inconcludenti dopo ben 55 giorni e lamenta la mancata partecipazione a tali consultazioni dei c.d. poteri forti che Panebianco indica nei vertici delle magistrature (ordinaria, amministrativa e costituzionale), nonché la dirigenza amministrativa. Praticamente un terzo di ciò che in altri Paesi Occidentali farebbe parte dei c.d. poteri di governo. In Italia ciò sfugge ai più perché da noi si è preferiti parlare di “stato” come qualcosa di separato e distinto dal “governo” che da noi si identifica nel solo ramo esecutivo che in più nasce debole e non solo perché organo collettivo e collegiale presieduto da “un [ministro] primus inter pares”.

In Italia la predetta sistematica costituzionale ha fatto comodo perché giustifica l’indipendenza della magistratura, un’anomalia nel Mondo Occidentale che non conosce uguali. E così da noi si è lasciati fuori dal “governo” (ma non dallo “stato”) la c.d. “magistratura”, ovvero il terzo potere di quello stato che insieme ai rami legislativi ed esecutivi lo governano. Senza la benedizione dei poteri forti o “tecnostrutture” di Panebiano qualsiasi governo sarebbe “ … a rischio di decapitazione politica”.

Il sottoscritto pure addebita la deriva del Paese al sistema costituzionale ed istituzionale più che ai singoli uomini politici che si sono susseguiti nel tempo ai vertici ma non penserebbe mai che la risposta risieda nell’associare le tecnostrutture alle consultazioni almeno che ciò non serva per giustificare la loro sottomissione al potere politico che li ha creati.

Nel paese del “ni” dove raramente un politico dice ciò che pensa veramente, dove non esiste la disciplina partitica, dove persino la costituzione non tiene un legislatore al mandato ricevuto dai propri elettori, la riforma delle magistrature è prioritaria e sine qua non rispetto a qualsivoglia riforma. Le tecniche per imbrigliare le tecnostrutture sono arcinote: trasformarli da burocrati in cariche sottoposte o al vaglio degli elettori o ad una delle due camere del parlamento o all’esecutivo.

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